La Cucina anarchica di Magorabin

Quel tavolino la è quello dove sedeva l’Avvocato” ci conferma il patron Marcello Trentinierano gli anni in cui il locale si chiamava Gambero blu, ed era frequentato da Gianni Agnelli, con un tavolo sempre prenotato”.

Siamo a Torino, al Magorabin (che in idioma albese, significa personaggio strano, un po’ scomodo), enclave stellata di Marcello Trentini, un laboratorio dei sapori che il passaparola ormai identifica come una delle insegne creative più interessanti di Torino. Il “pirata anarchico e autodidatta”, come lui stesso si definisce, si rivela cordiale e cosi la moglie Simona, e tutto fila liscio, con una sequenza di piatti che metterebbe in ginocchio anche Luigi Cremona (ma lui ha le sue porzioni mignon) e dobbiamo cominciare a dosare, rinunciando così poco alla volta a una generale piacevolezza che si riverbera in ogni singola portata.

Un interessante viaggio dei sapori, con un servizio elegante, capace, disinvolto, che ci accompagna nel paese delle meraviglie di Magorabin, dove assaggiare significa entrare in una tale intimità con il patron, da rivivere insieme a lui il suo percorso personale e professionale, comprese le difficoltà e le incertezze dei primi tempi. Nessuna alberghiera o un padre che gli abbia trasmesso il sacro fuoco della cucina, ma a tredici anni ha già la passione della cucina ed è capace di preparare un brasato al Barolo.

Prima il diploma al liceo artistico, poi il Servizio Civile e l’esperienza nella cucina di un locale dell’Arci Gola e dai diciotto ai 29 anni viaggia in Italia e all’estero, pagandosi le spese lavorando nei ristoranti dei luoghi dove si ferma, esperienze brevi, di qualche mese, talvolta facendo le stagioni nelle località di villeggiatura. Poi nel ’98 ritorna a Torino per il primo Salone del Gusto e nel ’99 mentre lavora in un’enoteca e scopre i ristoranti stellati girando le Langhe la domenica con il suo titolare.

Nel settembre del 2002 conosce Simona e si fa strada la consapevolezza di un locale. In Corso Maurizio c’è una trattoria toscana con un signore anziano che vuole smettere. Il posto, piace a tutti e due e dopo un paio di mesi di ristrutturazione, nel 2003, si apre al pubblico. All’inizio si continua prudentemente con la cucina della trattoria, con taglieri di salumi e formaggi, bistecche e tagliolini alla salsiccia, mantenendo il menù del toscano, ma inserendo qualche piatto firmato da Marcello, che ancora non riscuotono grosso successo. Nel frattempo il locale cambia volto mille volte, piccole e grandi migliorie, si aggiusta qua, si sistema là, tinteggiando, aggiungendo un elemento d’arredo, accorpando un locale attiguo, fino all’acquisto dei muri. Non ha mai rinunciato però alla porta con il campanello, uno degli ultimi consigli del vecchio toscano: ai suoi tempi corso San Maurizio era una zona difficile, non come ora che è parte della movida torinese.

Non resisto alla curiosità di sapere cosa c’era prima di Magorabin, che trascorsi ha avuto quello spazio un tempo greve e oggi riconosciuta meta gourmet: “era un vecchio locale con una licenza del ’39 – mi conferma Marcello – una rosticceria gestita da un siciliano, con polli allo spiedo e parmigiana, che negli anni ’60 e ’70, diventa il Gambero Blu, con il titolare Peter, menzionato anche nella biografia di Isaacson, una sala con una grande vasca piena di astici e otto soli tavolini. A quella, seguirà ancora una gestione, e poi dagli anni ‘90 all’inizio del 2000, sarà il vecchio toscano a prendere la scena, con i suoi succulenti piatti di carne, quando di fiorentine in giro, ce n’erano poche e imperversava la Mucca Pazza. Fino al 2002 che rileviamo io e Simona”.

I primi due anni sono stati difficili, i clienti ci hanno messo un po’ a capire cosa stava succedendo e quale era la filosofia di quella insegna che aveva cambiato così radicalmente la sua proposta (siamo nell’aristocratica e sabauda Torino del resto). Ma qualcosa cambia, Marcello e la sua cucina maturano, corregge il tiro dove serve, fa un lavoro su di sé e sullo staff e i clienti finalmente arrivano e capiscono. Arriva anche la stella Michelin, definitiva consacrazione per il locale torinese.

Una filosofia in continua evoluzione, che dopo una prima fase di sussistenza, si evolve, con alcune divagazioni e piatti di sua invenzione, vicini al confort food, come il Macco di Fave con gelato gastronomico di burrata e caviale affumicato di trota; oppure la Cena al contrario, cominciando dal secondo poi il primo e l’antipasto. Fino ad arrivare alla definitiva eliminazione dei piatti del toscano, confluendo in una cucina di territorio, visionaria, attenta all’evoluzione del mercato, ai nuovi flussi migratori che portano nuovi ingredienti ed entrano a far parte della cultura gastronomica della città.

Il punto di partenza è stato quello dei contrasti – continua Marcello – pesce e carne, cotto e crudo, un approccio laico, con prodotti che posso reperire sul mercato, nella più totale anarchia. Ho i miei periodi, oggi gli aceti, i brodi le estrazioni vegetali, domani le marinature, poi il tal ingrediente entra a far parte della mia cucina. Leggo molto, studio molto, viaggio molto, mi evolvo molto. La componente vegetale, l’attenzione alla digeribilità, l’attenzione a dosi omeopatiche di grassi e condimenti, la quasi completa abolizione del sale, il lavoro sulle concentrazioni dei gusti puri e naturali, l’assenza di zucchero, sono frutto dell’aver capito che cosa l’ospite gourmet si aspetta da un grande ristorante”.

E poi la Sala, appannaggio di Simona: oltre 800 etichette, decine di distillati e una particolare cura a seguire il livello alcolico del tavolo, proponendo all’occorrenza stand-by o pause ragionate con infusi, caldi, freddi, tè dalla Cina, dall’India, dal Giappone. Un grande team con 13 persone e alcuni tirocinanti che si alternano e circondano Marcello e Simona, tenendo fede all’idea di una “brigata orizzontale”, dove tutti hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri, l’anarchia come autogoverno responsabile, che impegna la squadra a correggersi a vicenda.

Un approccio verso i suoi ragazzi fatto di riconoscenza e condivisione, che ricorre spesso nel racconto di Marcello e che al termine del pranzo escono a presentarsi: in Cucina: Andrea Turchi – sous chef, Elisa Dell’Orto – sous chef, Lee Jiyoung – panettiera, Federico Tiseyra – Pastry chef. In Sala: Simona Beltrami – Restaurant manager e Sommelier, Alberto Bonanno – Direttore di Sala, Lau Bostiog – chef de rang, Marisella Vozza – Aiuto Sommelier.

Affidarsi allo chef si rivela ancora una volta la scelta giusta, ma questa volta ancora di più, visto che non mi ero tenuto i soliti due piatti sicuri, quando siedo in un ristorante che non conosco. Un percorso visionario, raffinato, curioso, che spazia attraverso piatti connotati da tecniche moderne, che esprimono sempre un pensiero profondo e non si pongono steccati di sorta.

Ecco allora tra le entrate: la gelatina pomodoro / Prunill semi dry /caviale; il foie di mare in carpione; il granchio / cavolfiore / pompelmo; lo sgombro tra Scapece e Saor; la Capanegra. Tra i primi piatti, il minestrone; i noodle / cime di rapa / tartufo nero; gli agnolotti torinesi; il risotto To – Mi. Tra i secondi la ventresca di ricciola e caviale; il piccione tandoori. Tra i dessert, il sorbetto al pomodoro, acqua di finocchi e fave; la pannacotta / aneto / lime; la noce / Moscovado / yogurt; i brownies / itakuja / barbabietola.